Tratto da
"testimonianze dai lager"
Antonio Visintin, nato a Fiumicello (UD) nel 1924, residente a Boissano (SV)
Arresto effettuato dalle SS, nel maggio 1943 ad Amiano di Monfalcone (GO) per attività partigiana in area triestina e slovena
Carcerazione a Trieste, presso l'ufficio delle SS, nel Carcere del Coroneo
Deportazione nei Lager nazisti d'oltralpe: in Germania, a Buchenwald, matricola n.78.418, poi a Dessau
Liberazione avvenuta l'8 maggio 1945, da parte dell'Armata Rossa, presso Praga, dove giunse con centinaia di compagni su un barcone, abbandonato dalle SS, che navigò per un mese lungo il fiume Elba
Ritorno a casa non assistito
La testimonianza
Mi chiamo Antonio Visintin, sono nato a Fiumicello in provincia di Udine il 17 gennaio 1924.
Ero tenuto sempre d'occhio perché quando facevamo il premilitare e il sabato toccava andare a marciare, io non avevo pagato la tessera. Poiché noi lavoravamo sui sommergibili a turni, avevo un lasciapassare timbrato dai Tedeschi. Vicino a casa mia, c'era l'artiglieria antiaerea, i fascisti passavano con i camion e controllavano, e mi hanno anche fermato parecchie volte, ma io avevo questo lasciapassare, potevo passare. Era un'occasione buona per lavorare coi partigiani, nelle ore in cui non avevo i turni del lavoro potevo fare quello che serviva alla nostra organizzazione.
Sono entrato nei partigiani a metà maggio 1943. Un giorno hanno bombardato seriamente il cantiere dove lavoravo, lo avevano già bombardato prima ma con poco danno, questa volta invece non si poteva lavorare.Ad un certo punto mi hanno cambiato di brigata, e mi hanno cambiato armi. Ci ritiriamo nei boschi dove i carri armati non potevano venire. Dovevamo fare un'azione di disturbo, sparare e scappare via, mollando le armi e tutto. Davanti c'era la fanteria e i carri armati, lenti, erano dietro. C'era una curva nel vallone, in questa montagna, e noi eravamo appostati sulla collina. Io per fortuna ero il più lontano di tutti, un po' in dentro, riparato dal bosco. Davanti la collina era tutta pulita, e sotto era la strada. E' venuta avanti la fanteria e tre camion, i camion erano carichi di gente, di armi e di rifornimenti. Dietro si sentiva il rumore di carri armati ma erano molto lontani.
Quando sono ben a tiro apriamo il fuoco. Dopo un'ora circa vengono avanti i carri armati, coi cannoni 125 e le granate puoi capire! con tre tiri al massimo hanno fatto saltare per aria tutte le postazioni per la mitraglia, che poi erano fatte di pietra e melma, perché il terreno era duro e non ce la si faceva a scavare una fossa. Io avevo il piede fuori e ho preso una pallottola nella caviglia. Un altro mio amico si è preso una scheggia di granata, e l'altro ha avuto dei sassi piantati nella faccia. Gli unici tre rimasti vivi.Andiamo da Amiano a Dobardò, e a Monfalcone andiamo in un ospedale. Io sapevo dove andare, conoscevo gente che ci poteva far passare.
Erano le otto e i Tedeschi erano arrivati alle cinque, avevano invaso tutto il paese. Bastava fare un passo indietro e noi saremmo stati salvi. Camminavamo per la strada, ma loro erano fermi col mitra che ci aspettavano. Tutto lì. Eravamo in borghese, armi non ne avevamo, non sanno niente, non se ne sono accorti, pensavamo. Però hanno visto il mio amico con tutta la faccia pesta, che era molto in vista, e penso che per quello l'abbiano fatto sparire. Ci hanno messo in una casa con fuori le guardie. L'indomani mattina ci hanno caricato su un pullman e ci hanno portato a Trieste, non al Coroneo ma al comando delle SS.
Lì ci hanno bastonato ben bene, senza dirci niente. E poi ci hanno mandano al Coroneo. Un giorno è venuto l'ordine di sfollare la prigione del Coroneo, e mandare in Germania tutti quelli sospetti che interessavano loro. Ci hanno preso, caricato sui camion, portati in stazione sul carro bestiame, chiuse le porte e via in Germania. L'indomani a mezzogiorno hanno aperto le porte, non so dove eravamo, ma dalle case capivo che eravamo già in Austria, che non eravamo più in Italia. Ci hanno fatto fare i nostri bisogni in aperta campagna, col fucile si capisce. Poi torniamo su di nuovo, chiudi i vagoni e via. Ci hanno dato una pagnotta - un mattone - per ogni vagone. Nel mio vagone eravamo in quarantasei, negli altri erano anche sessanta. Non hanno mica dato due pagnotte, una sola. L'abbiamo tagliata a pezzi e fatto un pezzettino ciascuno. Non abbiamo bevuto per quattro giorni, e in tutto ci hanno dato due pagnotte, finché non siamo arrivati a Buchenwald.Ci hanno portato in queste baracche, e l'indomani mattina c'era un grande catino, di tre metri di diametro e alto ottanta centimetri. Cosa c'era dentro non lo so, sapeva di petrolio, di nafta. Allora spogliati tutti uno alla volta ti buttavano dentro e ti schiacciavano giù con la testa. Poi avanti di là, c'era un corridoio, tagliavano tutti i capelli e i peli dappertutto. I capelli prima li tagliavano alti un dito, poi facevano la striscia in mezzo a zero, una volta cresciuta la striscia, ritagliavano a zero in modo da essere riconoscibili. Poi ci hanno visitato tutti, ci hanno guardato in bocca se avevamo oro. Levavano tutto subito, tutto era loro! non c'era pensiero. Non erano anni in cui avessimo tanti orologi, però qualcuno aveva qualche anello, l'orologio da taschino, qualcosa. Non rimaneva più niente. Poi ci hanno dato la nostra bella divisa a righe, col numero e col triangolo, e un paio di zoccoli col legno sotto. E' cominciata l'odissea. Il mio numero era 78.418.
Tante volte dalla campagna ci portavano le rape dentro un sacco tutte sporche di terra. Venivano lì, buttavano il sacco in mezzo alla baracca e con la macchina fotografica facevano le fotografie. Noi come scemi a litigare tra noi, chi ne prende due, chi non ne prende nessuna, e mangiarle ancora con la terra su. Allora io ho conosciuto un russo, un certo Nicolaj, anche lui aveva un po' di autorità perché era prigioniero dei tedeschi già da tempo. Gli ho fatto un discorso e lui l'ha riferito a tutti. Perché dobbiamo essere così cretini da farli ridere? Stiamo male ma almeno non siamo dei cretini. Siamo uomini, dimostriamo di esserlo! Allora cosa facciamo? Quando arrivano a vuotare il sacco - tutti in piedi non potevamo stare, non c'era spazio - restiamo dentro i castelli. Incarichiamo quattro o cinque persone di andare ai lavandini, lavare le rape e dividerle.
Eravamo in trentotto, le dividevamo in trentotto pezzi. E abbiamo tirato a sorte per decidere a chi toccava questo e a chi toccava quello. Allora vengono, rovesciano le rape e il maresciallo era già pronto con la macchina fotografica, ma nessuno si muove. Lui tutto incazzato, col nerbo tira botte di qua e di là, ma come? Nessuno ha parlato, niente, allora lui ha preso e se ne è andato via. E' rimasto male, ha capito che i disonesti erano loro, non noi.
Le bestie erano loro, non noi. Quando sono venuti a bombardare gli Americani, ci avevano mandato nei magazzini a sistemare della roba, delle divise dell'esercito. E' venuto un bombardamento e allora ci chiamano coi numeri, mettersi in fila, ci portano in piazza e ci caricano sul treno. E ci hanno portato da Buchenwald nel distretto di Weimar fino a Dessau. Ci mandano a lavorare in fabbrica. Alla mattina alle quattro e mezza sveglia, come pasto una brodaglia di zuppa - margarina non ne abbiamo mai vista - e una fetta di pane come un mattone.Mi diedero da fare un ponte levatoio da mettere sopra i camminamenti e passare con i carri armati.
Ero chiuso tra le lamiere, perché i lampi della saldatura davano fastidio ai civili, a tutti, allora stavamo dentro. Il borghese che era capo della fabbrica, un tedesco del posto, era una brava persona e mi aveva preso in simpatia, ma non poteva parlare con me, mi doveva dare solo ordini e basta. Oltre ai ponti costruivamo vagoni speciali, vagoni cisterna ricoperti di compensati robusti e mascherati con la croce rossa. In mezzo avevano le mitragliere. Di fuori era compensato, dentro c'era uno strato di cemento di cinquanta centimetri tutto in cerchio, dove giravano le mitragliere a quattro canne, mitragliere antiaeree, e sopra c'era un coperchio apribile, scorrevole, in caso di bisogno.In questo campo siamo rimasti fino ai primi di aprile 1945.
Poi hanno raso la fabbrica al suolo e ci hanno portato via. Alcuni li hanno messi come le bestie sui carri, noi ci hanno fatto camminare. Abbiamo camminato due giorni e una notte senza mangiare, siamo arrivati al mattino e c'era da passare dei camminamenti su dei picchi di roccia friabile, chi restava indietro era morto. Corri a tirare avanti i carri per portare la loro roba - avevano tutte le loro cose in quei carri - e noi a tirare perché di cavalli non ce n'erano. Ci portano sull'Elba, non so che città era, e ci mettono su tre barconi. Ormai non erano in grado di consegnarci a nessuno, ci dovevano far fuori tutti, perché sennò erano responsabili di quello avevano fatto. Abbiamo navigato un mese sui barconi, sempre con queste razioni di cibo spaventose. La gente moriva nelle stive, non c'era gabinetto, non c'erano letti, non c'erano coperte, non c'era niente. Bestie, come si mettono le vacche, bestie e basta. Abbiamo fatto questo mese di viaggio e siamo arrivati vicino Praga, a diciassette chilometri. C'era un bivio. Era l'8 maggio quando siamo arrivati.
Di là del fiume c'erano le camionette coi Russi che già ci facevano segno, anche i Cecoslovacchi dicevano 'buttateli tutti, che ormai la guerra è quasi finita'. Era una sacca, i Russi erano già davanti a noi, non potevamo più andare avanti coi barconi. Fermano i barconi e l'armata rossa viene avanti. C'era una colonna di militari tedeschi sulla strada vicino, li hanno fatti fuori tutti, e i nostri si sono presi paura. Noi non si sapeva niente, né che giorno era, né quando finirà la guerra, né dove eravamo. Avevamo perso tutto ormai, qualunque orientamento e qualunque speranza. Durante la notte le SS si sono levati le divise, hanno messo dei vestiti normali e sono scappati. Stavano sul rimorchiatore, non sulle chiatte, in una barca a motore dietro noi, facevano la guardia ma solo ogni tanto venivano a vedere chi era vivo e chi era morto. Il morto pluf ! Nel fiume e via. Una mattina ci alziamo e non li troviamo più, non ci sono più. Allora viene qualcuno con la moto che ci dice 'siete liberi, loro sono scappati'.
Ci mettono in tre quattro per famiglia a Praga, ci danno da mangiare e da vestire, ci mettono a posto, il bagno e tutto. Poi ci passano alla visita e dicono 'tra tre giorni trovatevi tutti in stazione che vi portiamo in campo di smistamento'. Mi hanno portato dentro un campo di italiani, con il comando e gli ufficiali italiani. E' per gente come loro che abbiamo perso la guerra. Siamo stati quattro mesi ad aspettare che arrivassero i vagoni.Poi per rientrare in Italia ci abbiamo impiegato un mese. Siamo arrivati in Austria, in mano agli Americani, che hanno fatto di ogni vagone un camion, e ci hanno dato un pacchetto di sigarette e una cioccolata. La cioccolata, non l'avevamo mai vista, abbiamo mangiato di tutto ma la cioccolata! Poi ci disinfettano e ci mettono dove c'erano i letti. Dopo ci hanno messo su un treno passeggeri per venire in Italia, e quando dopo quattro giorni siamo arrivati al confine italiano, per prima cosa ci hanno suonato Il Piave mormorò. Arrivati a Verona, ci hanno messo nel campo con le tende già preparate dai militari, ci hanno visitato, siamo stati un paio di giorni lì, ci hanno dato da mangiare, ci hanno dato dei soldi, il biglietto, ci hanno divisi sud, nord, est, ovest e via, siamo venuti a casa. Non è finita. Quando sono arrivato a casa è arrivata la cartolina rosa che dovevo andare militare. Come? Non ne ho fatto già abbastanza io?